Nomadland: la recensione

Che Chloé Zhao sia una grande regista è fuori dubbio. Che Nomadland sia una storia forte, invece, è meno scontato: non basta parlare degli ultimi per essere i primi.

 

Nomadland

Eppure la partenza dello script era ottima: la sceneggiatura si basa sull’omonimo libro-inchiesta della giornalista Jessica Bruder che, per scrivere le storie degli americani cacciati dal mercato del lavoro durante la Grande Recessione del 2007/2009, ha vissuto mesi in un camper, seguendo le rotte di queste anime in pena da un lavoro occasionale all’altro. Anche la scelta della protagonista è stata perfetta: la faccia tumefatta di Frances McNormand è il volto di Fern, vedova senza più una città d’origine (la sua è stata uccisa dalla chiusura della fabbrica) che trascina la sua carcassa on the road attraverso un’America desolante. Va detto che pure la fotografia è maestosa e che il ritmo compassato non annoia mai. E allora cos’è che s’inceppa?

L’enorme problema di Nomadland è che, alla fine di tutto, questa Fern ti sta sulle palle.

Perché non si sa cosa voglia e perché la fa davvero troppo lunga su tutto. Sono evidenti i suoi problemi e i suoi dolori ma nel corso di tutta la pellicola lei rifiuta costantemente papabili soluzioni e possibili affetti. Tesoro mio, la vita è dura ma tu aiutati almeno una volta! Finisci col pensare che, se uno affoga, cerchi di salvarlo ma se poi rifiuta navi su navi che lo vorrebbero soccorrere, fai spallucce e gli lasci fare glu glu. Per questa ragione il suo personaggio perde tutte le sfide con gli altri famosi borderline del cinema statunitense.

Fern non lotta contro il destino accanito come Will Smith ne La Ricerca Della Felicità, non scappa da una famiglia di merda come Hilary Swank in Million Dollar Baby e non punta a superare i propri limiti come Emile Hirsh in Into The Wild. Più che guidare il suo camper, si lascia guidare da quel mezzo lungo strade polverose a stelle e strisce tra ghiacci e deserti. È una scelta narrativa voluta? Forse, ma è una scelta narrativa di merda.

 

Nomadland,

 

I più esperti fanno notare che dietro la volontà dell’Academy di premiare l’opera della Zhao con l’Oscar ci sia anche la voglia di dare risalto ad un film che rappresenta un pugno in faccia alla gestione di Trump. I licenziamenti, i mutui sospesi, le centinaia di migliaia di persone senza più fissa dimora sono stati temi di triste attualità e, a prescindere dalle proprie idee politiche, fa un certo effetto vederli traslati su persone vere (o almeno verosimili). In questo, l’opera è riuscita, anche grazie all’utilizzo di facce davvero fuori dai canoni estetici americani tra vecchiette con la pappagorgia, ragazzi IN sovrappeso e quarantenni divorati dalle intemperie e dall’alcol.

Dispiace per le orde di fricchettoni che hanno gridato al miracolo ma qua si tratta di una bellissima confezione dentro la quale il regalo non c’è. La regista è talmente giovane che ha tutto il tempo per girare film migliori ma fa un po’ sorridere che riparta con una statuetta in tasca per qualcosa che si fa fatica a finire di vedere e che non vorrai rivedere mai più.

Diciamo che, se il talento è indiscusso, questo è stato un Oscar ai migliori preliminari. Ora diamoci sotto col sesso.

 

Nomadland – 2021
Voto: 6

 

 

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