Dagli accordi di Bretton Woods al conflitto in Ucraina. Quali fattori stanno minando l’egemonia del dollaro all’interno del commercio mondiale?
La guerra in Ucraina è un conflitto che si gioca non solo sul campo di battaglia ma anche all’interno dei mercati finanziari. A fronteggiarsi sono sia gli eserciti che le valute: il dollaro, il rublo, l’euro e lo yuan. La “guerra monetaria” è iniziata lo scorso febbraio con il deprezzamento del rublo a seguito delle sanzioni inflitte dagli Stati Uniti con il congelamento delle riserve di dollari detenute dalla Banca Centrale russa. Oltre 500 miliardi di dollari non più utilizzabili da un giorno all’altro, con conseguenze inevitabili a livello globale. Mai, prima di allora, uno strumento simile era stato utilizzato contro una grande potenza economica. Tali sanzioni hanno avuto un effetto boomerang anche per gli USA, mettendo in discussione uno dei principi base dell’economia: avere una riserva valutaria in dollari che, improvvisamente, diventa inutilizzabile, mina la credibilità, a livello internazionale, della valuta stessa.
La stabilità, l’egemonia e la scambiabilità del dollaro, conferitegli a seguito degli accordi di Bretton Woods nel secondo dopo guerra, ha fatto sì che, negli anni, le banche centrali mondiali abbiano scelto di detenerne sempre una riserva di emergenza nelle proprie casse, essendo sicure che la moneta avrebbe mantenuto intatto il proprio valore, anche durante eventi straordinari. Non è un caso che, analizzando le riserve in valuta straniera detenute dalle banche centrali mondiali, il dollaro rappresenti quasi il 60% del totale, seguito dall’euro con il 20%, lo yuan e la sterlina. Questo costituisce da sempre un grande vantaggio per l’America: la grande richiesta di titoli del tesoro americano consente al governo statunitense di finanziare la spesa pubblica a costi bassissimi data l’alta domanda, il che abbatte il costo del debito pubblico USA.
Dopo il 1971, con lo scioglimento degli accordi di Bretton Woods, il dollaro è stato agganciato al petrolio, il cosiddetto oro nero, da cui “petrodollari”. Poi il crollo dell’URSS dopo la guerra fredda e l’accordo americano con i sauditi che gli ha permesso di imporre, per decenni, il pagamento dei barili di petrolio in valuta statunitense. In questo modo gli USA sono riusciti a mantenere il dollaro centrale anche dopo il 1971, che ha segnato la fine del cambio fisso tra oro e dollaro, almeno fino ad oggi, con l’ascesa della repubblica popolare cinese e della nuova via della seta.
Infatti, la risposta di Mosca alle sanzioni imposte da Washington è stata quella di ancorare il valore dei rubli all’oro. Una sorta di Gold Standard rivisitato che ha ridato stabilità al rublo, con un cambio fisso di 1 grammo per 5.000 rubli, inducendo un continuo apprezzamento della moneta russa. Il Cremlino ha poi deciso di rafforzare il legame finanziario con i cinesi sia incrementando le riserve di yuan presente nelle proprie casse, sia ipotizzando, insieme alla Cina, la possibile creazione di una moneta internazionale alternativa al dollaro, fondata su un paniere di materie prime quali petrolio, gas, metalli preziosi di cui la Siberia è ricca. Anche la Cina, insieme all’Arabia, sta correndo ai ripari, meditando una futura quotazione in yuan cinese del petrolio storicamente denominato in dollari.
Il terzo passo, oggetto di discussione ai tavoli, prevedrebbe lo sviluppo di nuovi sistemi di pagamento per regolare gli scambi tra le due potenze senza dover necessariamente convertire i rubli in dollari e poi i dollari in valuta locale. Se questo sistema dovesse funzionare, sarebbe inoltre estendibile a tutti gli scambi, anche tra altri Paesi. In questo modo si configurerebbe un nuovo polo, alternativo agli Stati Uniti, che rende possibile, da qui ai prossimi 10 anni, la coesistenza, affianco al dollaro, di una nuova valuta di riferimento nel commercio del petrolio e non solo. Questo confermerebbe le ipotesi degli analisti secondo cui, ad una dicotomia geopolitica, caratterizzata dalla convivenza tra USA e Cina, dovrà necessariamente corrispondere una dicotomia valutaria.